Osmače e Brežani

Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino
XXV edizione, 2014

XXV edizione, 2014

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Motivazione della giuria

La giuria del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino ha deciso all’unanimità di dedicare la venticinquesima edizione a Osmače e Brežani, due villaggi del Podrinje, regione della Bosnia orientale, ai confini con la Serbia. Siamo sull’altopiano sopra Srebrenica, scavato da corsi d’acqua e ondulato come un gheriglio di noce, stretto dentro i profondi canaloni di una grande ansa della Drina, un fiume cruciale della storia e della cultura europea, confine e insieme legame di civilizzazioni che si sono confrontate nella geografia balcanica. Un territorio di fronte al quale è inevitabile interrogarsi sulla contraddizione tra la bellezza della natura e i segni onnipresenti di una guerra ancora leggibile. Osmače e Brežani compongono insieme uno dei tanti luoghi della Bosnia-Erzegovina dai quali due decenni or sono è stata strappata la vita di una comunità, devastata la sua convivenza multiculturale di lunga durata, dispersi i sopravvissuti. Tra questi ultimi, e ciò ne fa un luogo di testimonianza e di esperienza altamente significative, un piccolo nucleo di famiglie di agricoltori e allevatori cerca da qualche anno di trovare la strada del ritorno e la trama della memoria, di costruire nuove relazioni tra persone, di rinnovare il legame necessario tra spazio da abitare, terra da curare, casa da ricostruire, condizione umana da conquistare.

“Prima dello strappo”, nel 1991, Osmače aveva 942 abitanti e Brežani 273. Nessuno vi ha abitato dal 1993 al 2002. Oggi un centinaio di persone vive nei borghi di Osmače: Mahala, Hadrovići, Sedlari, Podstran, Prisoje, Mursalovići, Sećimići; mentre alcune famiglie vivono nei borghi del contiguo villaggio di Brežani: Primilac, Posolila, Gajić, Turija.

Il luogo si presenta dunque come un arcipelago di borghi, autentiche cellule insediative, distanti tra loro varie centinaia di metri, sparse in una ventina di chilometri quadrati di territorio posto tra i 900 e i 1.000 metri di altitudine, segnato da corsi d’acqua, disegnato da prati e boschi. Ogni borgo è a sua volta costituito da un numero assai variabile di case unifamiliari, separate l’una dall’altra ma nel loro insieme in grado di connotarne la postura e definirne il toponimo.

Le case, manufatti edilizi la cui semplicità costruttiva è visibilmente derivata dall’es­senzialità dei mezzi disponibili, sono dotate ognuna di un proprio spazio aperto destinato alla corte degli animali domestici, all’orto, al frutteto; un’area dominicale confinante su più lati con i terreni dei vicini e su un lato con il passaggio pubblico, diventa così un vero e proprio ambito di relazione, di vicinanza, di scambio dei frutti della terra e della cucina. Le relazioni interpersonali e interfamiliari quotidiane, espressioni di una civiltà materiale comune e di una cura collettiva dell’ambiente fisico, appaiono in grado di costruire nel tempo un nuovo tessuto antropologico unitario fondato sul pieno rispetto delle differenze di cultura, di gusto, di pratica devozionale. Le case e i loro immediati contesti sono i nodi di un reticolo che diviene, alla scala del borgo, la misura fondativa dello spazio e del tempo comunitario.

I borghi mostrano tra loro rapporti privi di gerarchia, in una condizione senza centro che ci sorprende. Ma in realtà l’arcipelago insediativo che dà forma a un microcosmo multiculturale si costituisce dentro misure di spazi e presenze di segni di diverse memorie e ierofanie, i diversi edifici religiosi, il piccolo cimitero, il tempietto con la lista dei caduti, il crocevia con la fontana, luogo di incontro per le persone che passano e per gli animali che pascolano.

Assume valore simbolico la scuola che “prima” accoglieva insieme oltre 500 alunni provenienti da vari villaggi circostanti in un bell’edificio scolastico “moderno” degli anni Settanta del Novecento, oggi in rovina al centro di una vasta radura nel bosco tra i borghi di Brežani e quelli di Osmače.


La strada del ritorno è stata presa all’inizio degli anni Duemila e si svolge in un quadro di faticosa elaborazione e sperimentazione di piccoli passi, mentre ancora tutto, le persone, le case, le felci che invadono i prati; tutto continua a mostrare il peso di un trauma e di una lunga assenza.

Il lavoro per documentare e storicizzare il quadriennio 1992-1995, e in particolare le atrocità del luglio 1995, è lontano dalla conclusione. Ancora nel luglio del 2013 sono stati sepolti i resti di altre 409 persone, portando a 6.066 il numero complessivo dei sepolti nel Memoriale di Potočari. A Tuzla, nel centro di identificazione delle vittime, sono ricoverati attualmente 1.500 resti umani non ancora identificati; e la stima ufficiale è che ne verranno raccolti almeno altri 500. Il lavoro per ritrovare, ricomporre e dare pace alle vittime è complicato dal fatto che, dopo l’interramento nelle fosse comuni, i loro corpi sono stati smembrati e sparsi in altre fosse comuni, cosiddette “secondarie”, in tutta la Bosnia nord-orientale, con lo scopo di occultare le prove.

Dalla fine della guerra è passato un settennio di profugato, di diaspora, di esilio, prima che nel 2002 si registrassero i primi rientri. È un fenomeno che si verifica in tutto il Podrinje, un territorio articolato amministrativamente in diversi Comuni, tra i quali Bratunac e Srebrenica, e dove sono insediate decine di Comunità locali, 19 delle quali si trovano nel Comune di Srebrenica, compresa Brežani, di cui fa parte il villaggio di Osmače.

I piccoli passi del ritorno, e la loro tensione a trasformarsi presto in energia sufficiente a restare, trovano nel loro itinerario vicinanze e solidarietà nate negli anni e nei fatti indicibili, e poi mai spente. E tutta questa vicenda bosniaca trae forza dalla riflessione di Alexander Langer (Vipiteno/Sterzing 1946-Firenze 1995), una figura che ha attraversato gli anni della guerra lasciando un sedimento maieutico imprescindibile. In particolare con il suo Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica ha posto nel 1994 le basi teoriche e pratiche per trovare la strada del ritorno, definendo «i gruppi misti inter-etnici, per piccoli che possano essere, le piante pioniere della cultura della convivenza».

Ma sono le energie endogene latenti che, riemergendo lentamente e faticosamente, riescono via via a convocare e ad attrarre nuove iniziative e progetti. Irfanka Pašagić, psichiatra, Premio Internazionale Alexander Langer 2005, promotrice e direttrice a Tuzla dell’associazione Tuzlanska Amica, era attiva fin dal 1992 nella cura e assistenza di donne e bambini dei territori sottoposti a “pulizia etnica”, tra i quali Srebrenica.

Nel 2005, con la vicinanza fattiva della Fondazione Langer e di Tuzlanska Amica, alcuni giovani di diversa etnia-nazionalità e di diverse tradizioni religiose, bambini nel 1995, costruiscono insieme il gruppo informale Adopt Srebrenica, per ragionare sul loro futuro e sulle prospettive della loro città.

Negli anni successivi una decina di famiglie si sono prima affacciate al dialogo e poi, come vere e proprie specie pioniere, hanno compiuto il passo decisivo del ritorno nei villaggi dell’altopiano, per rimettere mano alla terra dei padri e delle madri, riamarla, curarla. È in un contesto così delineato che, nel 2010, si avvia a Osmače l’esperimento agricolo della semina del grano saraceno, una delle molteplici iniziative attivate in diverse aree del Podrinje per mezzo di scambi di conoscenze e di pratiche che coinvolgono operatori e tecnici di varie realtà internazionali, nei diversi settori dell’economia agro-silvo-pastorale, in particolare nelle colture dei cereali, dei frutti, dei piccoli frutti e dell’allevamento ovino e bovino.

Nel 2011, Adopt Srebrenica, con la collaborazione dell’Archivio Storico di Bolzano, progetta un centro di documentazione sulle storie individuali e collettive della comunità. È un altro passo verso la riconciliazione delle memorie diverse, nella convinzione che ogni possibile proposta per il futuro non possa che nascere dalla conoscenza e dalla protezione del patrimonio storico comune.


È difficile dar conto ordinato di tutti i collaboratori e gli amici di questa esperienza collettiva di cura della terra che si viene svolgendo a Srebrenica e di queste famiglie che vivono e lavorano a Osmače e Brežani, ma vanno nominati, con le già citate Fondazione Langer e Tuzlanska Amica, almeno il Centro Pace del Comune di Venezia, gli Agronomi senza Frontiere di Padova, la Cooperativa agricola El Tamiso e l’Associazione di Cooperazione e Solidarietà Italia. Il progetto attualmente in corso sul miglioramento colturale del grano saraceno e di altre specie adatte alle condizioni ambientali e pedologiche del luogo, porta il titolo significativo Seminando il ritorno ed è sostenuto dalla Tavola Valdese. Nell’agosto del 2013 è stata inoltre avviata, intorno al gruppo Adopt Srebrenica, una rete di solidarietà internazionale che coinvolge varie città e centri culturali.

Il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino si inserisce in questo vasto quadro di riflessioni e di iniziative, definendo un proprio ruolo parziale e un contributo peculiare nel tentativo di capire più da vicino, e con l’impegno di far conoscere un po’ meglio, le ragioni profonde che legano singoli individui o gruppi familiari o piccoli insiemi comunitari al luogo abitato dalle loro memorie e dai loro propositi. Ragioni e legami talmente forti da permettere loro di affrontare, come dimostra il caso di Osmače e Brežani, un abisso che appare invalicabile. Il dialogo con i protagonisti e la loro testimonianza diretta ci aiuta a vedere quali possano essere i modi più adatti e gli attrezzi più utili a partire dal coltivare la terra, per affrontare la cura degli ambienti fisici e dei quadri di vita in un’area segnata da un trauma recente, ultimo pesante strato accumulato sopra le infinite metamorfosi geopolitiche nella lunga durata della storia e nella larga geografia euro-mediterranea.

Questo luogo, questa vicenda, ci aiutano a intendere il senso e il valore di un’esperienza di piccole dimensioni socioeconomiche e di alto profilo civile, che si inscrive, con simbolica intensità, nel diffuso fenomeno del “ritorno alla terra”. Più da vicino, e con urgenza, ci pongono il tema della costruzione dello spazio multiculturale non come attitudine distributiva di posti ai diversi ma come spazio di compresenza unitaria di diversi. A due dei protagonisti, rappresentanti e testimoni delle loro comunità, delle loro culture, dei loro villaggi, Muhamed Avdić e Velibor Rankić, la giuria decide di affidare il sigillo di Carlo Scarpa, per esprimere un sentimento di affettuosa vicinanza e di incoraggiamento, per confermare l’impegno a conoscere e far conoscere le difficoltà e le speranze delle loro fatiche, e per ringraziarli della lezione di vita, attualissima e universale, che viene dalla loro meravigliosa resistenza sull’altopiano.